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06/04/12

SCALA #EDSS (Expanded Disability Status Scale)


SCALA EDSS (Expanded Disability Status Scale)
Secondo la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), quanto la malattia influisce sulla qualità di vita del paziente può essere descritto in termini di impairment (insieme dei deficit neurologici prodotti dalla malattia); disability (le limitazioni del paziente nelle attività della vita quotidiana), e handicap (le limitazioni nelle attività sociali e lavorative).

Attualmente, il grado di severità della SM e, cioè, delle sequele neurologiche prodotte dal danno anatomico che subisce il tessuto nervoso, si effettua tramite una serie di scale cliniche fra le quali, la più utilizzata è quella seguente, proposta da Kurtzke e chiamata "Expanded Disability Status Scale" (EDSS).

EDSS: la scala di disabilità per pazienti affetti da sclerosi multipla.
Tratta da M.D. Medicinae Doctor - n° 7 marzo 1997. La disabilità neurologica, che dipende nei pazienti affetti da SM dall'attività lesiva del processo demielinizzante a carico del Sistema nervoso centrale, viene valutata secondo una scala istituita come EDSS (Expanded Disability Status Scale) dal neurologo americano Kurtzke nel 1983.






EDSS =0: Paziente con obiettività neurologica normale demielinizzante.
EDSS da 1 a 3.5: Il paziente è pienamente deambulante, pur avendo deficit neurologici evidenti in diversi settori (motorio, sensitivo cerebellare, visivo, sfinterico) di grado lieve o moderato, non interferenti sulla sua autonomia.
















Da un EDSS =4 in su, i disturbi della deambulazione diventano preponderanti per il calcolo della disabilità secondo quanto segue:
EDSS =4: Paziente autonomo, deambulante senza aiuto e senza sosta, per circa 500 metri. 























 



 EDSS =4.5: Paziente autonomo, con minime limitazioni nell'attività completa quotidiana e deambulazione possibile, senza soste e senza aiuto, per circa 300 metri. 













  


  


EDSS =5: Paziente non del tutto autonomo, con modeste limitazioni nell'attività completa quotidiana e deambulazione possibile, senza soste e senza aiuto, per circa 200 metri.



 

EDSS =5.5: Paziente non del tutto autonomo, con evidenti limitazioni nell'attività completa quotidiana e deambulazione possibile, senza soste e senza aiuto, per circa 100 metri.












 






EDSS =6: Il paziente necessita di assistenza saltuaria o costante da un lato (bastone, grucce) per percorrere 100 metri senza fermarsi.








EDSS =6.5: Il paziente necessita di assistenza bilaterale costante, per camminare 20 metri senza fermarsi. 











 



EDSS =7: Il paziente non è in grado di camminare per più di 5 metri, anche con aiuto, ed è per lo più confinato sulla sedia a rotelle, riuscendo però a spostarsi dal14 stessa da solo. 



  







EDSS =7.5: Il paziente può solo muovere qualche passo. E' obbligato all'uso della sedia a rotelle, e può aver bisogno di aiuto per trasferirsi dalla stessa. 
















EDSS =8: Il paziente è obbligato alletto non per tutta la giornata o sulla carrozzella. Di solito ha un uso efficiente di uno o di entrambi gli arti superiori.  











 




 EDSS =8.5: Il paziente è essenzialmente obbligato alletto. Mantiene alcune funzioni di autoassistenza, con l'uso discretamente efficace di uno od entrambi gli arti superiori. 

















EDSS =9: Paziente obbligato a letto e dipendente. Può solo comunicare e viene alimentato.















      


EDSS =9.5: Paziente obbligato a letto, totalmente dipendente. 




















EDSS =10: Morte dovuta alla patologia.












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Eseguita in Italia la prima angioplastica con stent riassorbibili

 

http://noteesalute.blogspot.com/2012/01/eseguita-in-italia-la-prima.html
 

È durato circa 45 minuti il primo intervento in Italia, terminata la fase sperimentale, di angioplastica con stent coronarici bioassorbibili . E' stato effettuato all'ospedale San Giacomo di Castelfranco Veneto Lo ha reso noto la stessa Ussl 8 di Asolo (Treviso), che spiega come l'operazione, che ha avuto come paziente un uomo di 41 anni che esegue molta attivita' sportiva affetto da aterosclerosi coronarica diffusa, sia durata 45 minuti e abbia avuto "un esito ottimo". Ad eseguire l'intervento l'equipe della sala di Emodinamica diretta dal Primario di Cardiologia dell'ospedale San Giacomo, Carlo Cernetti. La procedura eseguita con accesso attraverso la arteria radiale di destra senza complicanze, ha consentito al paziente di poter tornare nella propria stanza di degenza autonomamente: si tratta del primo caso del genere a livello nazionale. "Tale tecnologia consente di ricostruire l'anatomia delle ***arterie*** coronariche introducendo nelle stesse delle protesi bioassorbibili che nel giro di 18-24 mesi riparano completamente l'arteria per poi dissolversi, a differenza degli attuali stent metallici (medicati e non) che permangono a tempo indefinito nell'albero coronarico del paziente". La terapia riparativa, associata a una farmacologica moderna, "permette ai paziente di condurre una vita pressoche' normale con netta riduzione del rischio di futuri eventi cardiovascolari" e, per quanto per ora sia applicabile solo a una fascia circoscritta di pazienti, apre "la strada ad uno scenario, nella cardiologia interventistica, di enorme impatto per i pazienti affetti da patologia ostruttiva vasale". Continua il dott. Cernetti : "Si tratta di un intervento significativo perche' questo nuovo tipo di stent lentamente rilascia un farmaco che permette la guarigione ***dell'arteria ostruita *** e dopo 18-24 mesi viene completamente bioassorbito. Questa tecnologia riduce il rischio di trombosi tardiva dello stent e dona nuovamente alla arteria le sue capacita' naturali di rispondere a stimoli neuro-endocrini (vasodilatazione e vasocostrizione)".
Un bel passo in avanti per la cardiologia interventistica.

Malattie cardiache: il Tai chi unisce mente e corpo per sconfiggerle


http://www.medicinalive.com/medicina-alternativa/medicina-tradizionale-cinese/malattie-cardiache-tai-chi-mente-corpo-per-sconfiggerle/
L’antica arte orientale del Tai chi, nata da pratiche di combattimento, oggi sembra poter combattere i “demoni” del nostro cuore. È attraverso la fluidità di quei movimenti, composti ed equilibrati e delle tecniche respiratorie che si armonizzano con la concentrazione mentale e spirituale che, secondo recenti studi pubblicati sull’Archives of Internal Medicine, le persone con insufficienza cardiaca cronica sarebbero in grado di migliore la propria vita.
Antichi insegnamenti che già nell’anno 1000 a.C. venivano tramandati nel Neijing, il testo della medicina tradizionale cinese, prescrivevano esercizi fisici e di respirazione (o anche massaggi), per prevenire malattie endemiche di alcune regione delle Cina. Successivamente furono i taoisti ad affinare queste “arti mediche” unendo alle pratiche fisiche e respiratorie lo spirito e la mente come tecniche efficaci per la prevenzione e cura di malattie ed il mantenimento della salute.
***********Oggi sono i ricercatori statunitensi della Harvard Medical School, a riscoprire ed esplorare, con un approccio scientifico, gli effetti del Tai Chi su 100 pazienti ospedalizzati affetti da insufficienza cardiaca sistolica. Il risultato sembra suggerire proprio quello che i taoisti avevano sapientemente intuito: un miglioramento della qualità della vita (in generale). I pazienti presi in esame, infatti, sono stati suddivisi in due gruppi: il primo con regolarità, per un periodo di dodici mesi, ha praticato lezioni di Tai chi. L’altro ha fatto parte di un gruppo che ha solo seguito una formazione teorica. I benefici manifestati dagli individui del primo gruppo hanno avuto ricadute non solo sulla qualità della vita ma anche sull’umore dei pazienti, fragili e debilitati a causa delle loro malattie croniche, che, al termine del periodo in esame, hanno manifestato  una naturale propensione all’esercizio e alla pratica del Tai Chi. Gli studi della Harvard Medical School suggeriscono, inoltre, la pratica del Tai Chi non solo come cura, ma anche come prevenzione per i disturbi che, con il passare del tempo e l’invecchiamento, conducono a una condizione di malattia cronica: pensiamo ad esempio all’artrosi del ginocchio! Lo spirito e la mente sembrano così riemerge dal passato del grande paese orientale e ritrovarsi nell’antica tecnica che prende corpo nei tanti nomi esotici che oggi contrastano malattie e deficit fisici del nostro secolo. [Fonte: Harvard Medical School]

La fibrillazione atriale

La fibrillazione atriale e’ un’aritmia cardiaca caratterizzata da una completa irregolarita’ dell’attivazione elettrica degli atri, due delle quattro camere cardiache. In presenza di tale anomalia, le normali contrazioni atriali vengono sostituite da movimenti caotici, completamente inefficaci ai fini della propulsione del sangue. Inoltre il battito cardiaco diviene completamente irregolare.

La fibrillazione atriale e’ la piu’ comune fra le aritmie cardiache, con una prevalenza dello 0.5% nella popolazione adulta.
Il rischio di esserne affetti aumenta con l’eta’: la percentuale dei pazienti affetti sale al 5% oltre i 65 anni. Tale aritmia e’ poi piuttosto comune nei pazienti con altre patologie cardiocircolatorie, come l’ipertensione arteriosa, la malattia coronarica, ma soprattutto le malattie valvolari: fra il 30 e l’80% dei pazienti operati per malattia della valvola mitrale giungono all’intervento in fibrillazione atriale.

La fibrillazione atriale puo’ essere cronica, ovvero continua, persistente oppure parossistica, con episodi di durata variabile da pochi secondi ad alcune ore o giorni.
Essa e’ causa di un significativo aumento del rischio di complicazioni cardiovascolari e di una riduzione della sopravvivenza a distanza.
Provoca inoltre una riduzione della tolleranza agli sforzi, causata da un’efficienza subottimale della contrazione del cuore, con sintomi quali palpitazioni, affaticamento e mancanza di fiato. Infine, il ristagno di sangue nelle camere atriali “paralizzate” dall’aritmia, favorisce la formazione di coaguli all’interno del cuore ed il rischio di fenomeni embolici come l’ictus cerebrale. Per questo motivo i pazienti con fibrillazione atriale vengono solitamente trattati con farmaci anticoagulanti.

Per quanto riguarda il trattamento, vi sono due possibili strategie: 1) la cardioversione, o conversione al ritmo cardiaco normale ed
2) il semplice controllo della frequenza cardiaca. Solo la conversione ed il mantenimento di un ritmo normale, anche detto “sinusale”, permettono pero’ di minimizzare i sintomi ed i rischi descritti, oltre a consentire l’interruzione della terapia cronica con farmaci anticoagulanti.
Il mantenimento del ritmo sinusale e’ pero’ molto spesso difficile.
I farmaci antiaritmici deputati a tale scopo sono frequentemente inefficaci e sono spesso causa di effetti collaterali anche piu’ gravi della stessa fibrillazione atriale.

Recenti sviluppi hanno consentito di trattare la fibrillazione atriale mediante ablazione con radiofrequenza.
Si sono infatti individuate nell’ambito della parete atriale delle zone responsabili dell’inizio e del mantenimento dell’aritmia, in prossimità dello sbocco negli atri delle grosse vene provenienti dai polmoni. Creando delle bruciature con cateteri a radiofrequenza, tali aree di instabilità possono essere neutralizzate.
Con procedure di questo tipo e’ possibile trattare virtualmente ogni paziente affetto da fibrillazione atriale con ottime probabilita’ di successo.

Nel campo del trattamento non farmacologico della fibrillazione atriale, il nostro Centro e’ un punto di riferimento a livello nazionale ed internazionale.
In caso di fibrillazione atriale associata ad una malattia cardiaca di altro tipo si procede ad ablazione dell’aritmia durante l’intervento cardiochirurgico necessario per corregere la cardiopatia di base. In questo modo, oltre ai benefici dell’intervento correttivo a cuore aperto, il paziente potra’ giovarsi anche del recupero del normale ritmo cardiaco e potra’ in molti casi evitare la terapia anticoagulante cronica.
Nel caso in cui invece la fibrillazione atriale sia isolata, non associata ad altre malattie cardiache suscettibili di correzione chirurgica, sono state recentemente messe a punto delle tecnologie innovative per eliminare l’aritmia con ablazioni con radiofrequenza per via transvenosa: il catetere da ablazione con radiofrequenza raggiunge il cuore attraverso il sistema venoso; quindi con una semplice puntura di una vena in regione inguinale si possono eseguire le bruciature sulla superficie interna degli atri curando l’aritmia.

La fibrillazione atriale, e’ una patologia a lungo sottovalutata in passato, della quale si stanno recentemente chiarendo le gravi implicazioni cliniche. Pertanto i moderni sviluppi nel suo trattamento chirurgico e transvenoso sono attualmente motivo di grande interesse per la letteratura scientifica internazionale.
A causa di una generale disinformazione, molti pazienti attualmente non sono a conoscenza della reale importanza del problema, e soprattutto delle moderne possibilita’ terapeutiche.


Circa 2,2 milioni di persone negli USA sono affette da fibrillazione atriale .

La prevalenza stimata nella popolazione generale è dello 0,4%, con aumento proporzionale all’età.
La fibrillazione atriale non è comune nell’infanzia, se non in associazione ad altre patologie cardiache.
Al di sotto dei 60 anni la prevalenza è inferiore all’1%, mentre è superiore al 6% al di sopra degli 80 anni.
La prevalenza è maggiore nei pazienti di sesso maschile.

La frequenza di fibrillazione atriale isolata o idiopatica varia tra il 12% in alcuni studi e il 30% in altri.
In tutti i restanti casi si associa a cardiopatia ipertensiva, cardiopatia ischemica, insufficienza cardiaca, cardiomiopatie,
valvulopatia mitralica, pericardite, abuso di alcool, embolia polmonare ed ipertiroidismo.
Può inoltre associarsi ad infezioni acute sistemiche, ipossia e chirurgia cardiaca.
La fibrillazione atriale è presente in circa il 50% dei pazienti affetti da patologia valvolare mitralica. L’evoluzione naturale della fibrillazione atriale dopo interventi di chirurgia cardiaca senza concomitante trattamento specifico dell’aritmia prevede un ripristino spontaneo del ritmo sinusale nel 15-20% dei casi.
Nei pazienti sottoposti ad interventi cardiochirurgici, la persistenza di fibrillazione atriale dopo l’intervento porta ad una riduzione della sopravvivenza globale, poiché non viene eliminato un importante fattore di rischio per l’insorgenza di insufficienza cardiaca e di gravi eventi tromboembolici. In uno studio, è stato dimostrato come il ripristino del ritmo sinusale sia associato ad una maggiore probabilità di sopravvivenza: 99% e 94% rispettivamente ad 1 e 4 anni dall’intervento in caso di ripristino spontaneo del ritmo sinusale, contro 97% e 77% rispettivamente ad 1 e 4 anni dall’intervento nel caso di permanenza di fibrillazione atriale.

I vantaggi del ripristino del ritmo sinusale dopo interventi cardiochirurgici sono più evidenti nei pazienti che non necessitano altrimenti di terapia anticoagulante, principalmente nei pazienti sottoposti ad interventi di plastica valvolare mitralica o di sostituzione valvolare con protesi biologica. In pazienti sottoposti ad interventi di plastica valvolare mitralica e concomitante trattamento della fibrillazione atriale con l’utilizzo della "Maze Procedure" è stata dimostrata una consistente diminuzione della probabilità di eventi tromboembolici e di rischio di sanguinamento dovuto alla terapia anticoagulante rispetto ad un gruppo controllo.

In assenza di trattamento chirurgico specifico combinato della fibrillazione atriale, la probabilità di ripristino del ritmo sinusale stabile dopo interventi cardiochirurgici nei pazienti affetti da fibrillazione atriale cronica è inferiore al 10%.
La probabilità di ripristino del ritmo sinusale aumenta quando la fibrillazione atriale viene trattata aggressivamente con terapia farmacologica o con cardioversione elettrica dopo l’intervento, tuttavia il mantenimento a distanza del ritmo sinusale rimane comunque inferiore al 26%.
Il trattamento della fibrillazione atriale durante interventi cardiochirurgici mostra ad oggi dei risultati soddisfacenti e dei rischi contenuti, ed è quindi da prendere in considerazione in ciascun paziente affetto da fibrillazione atriale e candidato a chirurgia elettiva per altra patologia cardiaca.
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CLASSIFICAZIONE DELLE TIPOLOGIE DI FIBRILLAZIONE ATRIALE

In passato si tendeva a distinguere tra fibrillazione atriale parossistica (PAF) e fibrillazione atriale cronica (CAF).
Secondo le più recenti linee guida dell’American College of Cardiology/American Heart Association/European Society of Cardiology (ACC/AHA/ESC) è necessario distinguere innanzitutto un primo episodio isolato di fibrillazione atriale, indicare se la regressione è stata spontanea o indotta, stabilire se il paziente è sintomatico o meno, tenendo presente che può esserci incertezza nel definire la durata dell’episodio stesso e l’eventuale presenza di episodi misconosciuti in passato. Quando nello stesso paziente si siano accertati 2 o più episodi, la fibrillazione atriale viene considerata ricorrente. In questi casi, qualora via sia il ripristino spontaneo del ritmo sinusale e gli episodi siano di durata inferiore o uguale a 7 giorni, la fibrillazione atriale ricorrente viene designata come parossistica; nel caso in cui gli episodi abbiano durata superiore a 7 giorni e/o il ripristino del ritmo sinusale abbia richiesto un trattamento di cardioversione farmacologica o elettrica, la fibrillazione atriale ricorrente viene designata come persistente. Nei casi in cui la cardioversione elettrica non sia stata tentata o sia stata inefficace e il paziente permanga in fibrillazione atriale, si parla di fibrillazione atriale permanente.
Questa classificazione prende in considerazione tutti gli episodi di fibrillazione atriale di durata superiore a 30 secondi e nei quali non sia riconoscibile una causa reversibile. I casi secondari a condizioni precipitanti quali infarto miocardio acuto, chirurgia cardiaca, miocardite, ipertiroidismo e malattia polmonare acuta vengono considerati separatamente: in questi pazienti il trattamento della patologia di base associato al trattamento dell’episodio di fibrillazione atriale di solito determina la risoluzione dell’aritmia.



SINTOMATOLOGIA CLINICA




La fibrillazione atriale può essere sintomatica o asintomatica.
I sintomi variano con la frequenza ventricolare, con il sottostante stato funzionale, con la durata della fibrillazione atriale e con la percezione individuale del paziente.
Il disturbo del ritmo può avere come prima manifestazione una complicanza embolica o l’esacerbazione di un’insufficienza cardiaca sottostante.

I sintomi principali che il paziente avverte sono palpitazioni, dolore toracico, dispnea, affaticamento. L’aumentato rilascio di peptide natriuretico atriale può essere associato a poliuria.
La fibrillazione atriale può portare a cardiomiopatia tachicardia-indotta, specialmente in pazienti che non si accorgono di essere affetti da aritmia.

La sincope è un evento raro ma grave, che di solito indica una eccessiva diminuzione della risposta ventricolare, l’associazione di stenosi valvolare aortica o di una cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva, un accidente cerebrovascolare o la presenza di una via di conduzione atrio-ventricolare anomala.
Sebbene certamente l’ictus cerebri costituisca la complicanza più temibile della fibrillazione atriale, anche lo stesso disturbo del ritmo è in grado di diminuire la qualità della vita dei pazienti affetti, sia in termini di impedimento funzionale – valutato secondo la classificazione funzionale della New York Heart Association (NYHA) – sia come fastidiosa irregolarità del ritmo cardiaco associata a palpitazioni.
L’utilizzo di una terapia anticoagulante orale, che costringe il paziente a frequenti esami del sangue per regolare la dose di farmaco da assumere, è un altro fattore che ha importanti implicazioni sulla qualità della vita dei pazienti in fibrillazione atriale. Alcuni studi mostrano che di 97 pazienti solo il 61% ha preferito seguire la terapia anticoagulante proposta piuttosto che non assumere la terapia, dunque una percentuale decisamente inferiore a quella per cui il trattamento è raccomandato secondo le linee guida più recenti.

Neuromielite Ottica, basta una analisi del sangue per distinguerla dalla sclerosi multipla

http://www.osservatoriomalattierare.it/ricerca-scientifica/1567-neuromielite-ottica-basta-una-analisi-del-sangue-per-distinguerla-dalla-sclerosi-multipla

I ricercatori della Mayo clinic hanno identificato gli stadi critici che portano alla distruzione della mielina nella Neuromielite Ottica, una malattia neurologica debilitante che di solito viene mal diagnosticata e confusa per sclerosi multipla (SM).
I risultati della ricerca potrebbero portare a una migliore cura per i pazienti affetti in tutto il mondo da NMO.

La NMO è una malattia infiammatoria autoimmune del sistema nervoso centrale che danneggia i nervi ottici e il midollo spinale, provocando ipovisione, debolezza, insensibilità e talvolta paralisi del braccio o della gamba e perdita di controllo dell'intestino e della vescica. Fino al 2005 la NMO era stata sempre diagnosticata come una grave variante della Sclerosi Multipla (SM) fino a quando un team guidato da Vanda A. Lennon, un'immunologa ricercatrice della Mayo Clinic, identificò un anticorpo specifico della NMO e scoprì che il suo bersaglio imprevisto era l’acquaporina 4, un’importante proteina canale che veicola l’acqua del sistema nervoso. Ciò che emerge da questa ricerca è che una semplice analisi del sangue ha rivoluzionato la diagnosi della NMO, perché consente una sua differenziazione dalla SM e introduce cure più appropriate.
L'anticorpo della NMO attacca gli astrociti che nel cervello e nel midollo spinale sono dieci volte più numerosi dei neuroni. Oltre a fornire nutrimento ai neuroni e a supportare il processo di riparazione e di rimarginazione, le altre funzioni chiave svolte dagli astrociti includono la regolazione dell'acqua dei tessuti, le attività elettriche dei neuroni e la stabilizzazione  la copertura protettiva dei nervi (la mielina). Attaccando i canali proteici per il trasporto dell’acqua sugli astrociti, l’anticorpo distrugge anche tutte le funzioni dinamiche correlate dell'astrocito e negli attacchi acuti uccide molti astrociti.
I nuovi risultati della ricerca costituiscono un progresso nella comprensione dei meccanismi di base della NMO, meccanismi cruciali per lo sviluppo risolutivo di un trattamento ottimale o persino una cura.
I risultati chiave includono:
* L'anticorpo associato all'NMO agisce su due isoforme del canale proteico per il trasporto dell’acqua, cioè l’acquaporina4: M1 e M23. M1 fugge più prontamente dagli anticorpi ma l'anticorpo che lega l’M23 provoca l'aggregazione dell'M23 sulla superficie dell'astrocito, con un conseguente danno cellulare.
* Una conseguenza dell'interferenza dell'anticorpo sul passaggio dell'acqua nel cervello è che l'acqua si accumula nella guaina mielinica, impedendo la rapida trasmissione dei messaggi nervosi la distruzione della mielina (demielinizzazione), che è un tratto caratteristico della SM, contribuendo perciò alla confusione diagnostica.

* Le terapie tradizionali impiegate per trattare  la SM possono realmente peggiorare la NMO.
"Questi risultati vanno ad aggiungersi alla nostra ricerca iniziale e contribuiscono enormemente alla nostra comprensione dell'insorgenza e del progresso della malattia nei pazienti affetti da NMO - spiega la dottoressa Lennon - Solo sapendo sempre di più sulla NMO possiamo sviluppare nuove terapie e nuovi approcci per curare chi è affetto da questa terribile malattia."

Sulla Neuromielite Ottica
Dato che la NMO solo di recente è stata identificata come sindrome distinta dalla SM, è difficile sapere quante persone ne soffrano. Sino a oggi il laboratorio di Immunologia della Mayo Clinic Neuroimmunology Laboratory ha scoperto l'anticorpo in tremila pazienti negli Stati Uniti. Perciò la NMO è più comune di quanto non si pensasse nel passato. La malattia progredisce con ciascun nuovo attacco e non c'è cura. Nella maggior parte dei pazienti, per gestire la NMO è richiesta una combinazione di terapia farmacologica e fisica, con un focus particolare sulla riduzione degli attacchi ricorrenti dopo il trattamento del primo attacco, riducendo in tal modo la disabilità e evitando le ricadute.

Sclerosi multipla: una venulite cronica infettiva cerebrospinale?

DA Xagena 2012 


Sclerosi multipla: una venulite cronica infettiva cerebrospinale?

L'eziologia proposta per lo sviluppo di insufficienza venosa cronica cerebrospinale associata a sclerosi multipla è la presenza di malformazioni venose congenite trunculari.

Questa ipotesi però non è coerente con l'epidemiologia o l'incidenza geografica della sclerosi multipla e non è coerente con molti dei risultati ecografici o radiografici dei disturbi venosi nei pazienti con sclerosi multipla.

Tuttavia, la probabilità di una eziologia venosa della sclerosi multipla rimane forte sulla base di prove accumulate da quando il disturbo è stato descritto. 

E’ stata compiuta una revisione della letteratura medica.

I dati epidemiologici e geografici della prevalenza di sclerosi multipla hanno indicato il coinvolgimento di un agente infettivo.

E’ stato ipotizzato che la malattia venosa potrebbe essere iniziata da un agente infettivo delle vie respiratorie come la Chlamydophila pneumonia, che causa una specifica venulite cronica persistente che colpisce il sistema venoso cerebrospinale.

La diffusione secondaria dell'agente avrebbe inizialmente luogo attraverso il sistema linfatico per coinvolgere in particolare le azygos, le vene giugulari interne e vertebrali.

L'ipotesi propone meccanismi attraverso i quali una vasculite venosa infettiva può provocare danni neurali specifici, effetti metabolici, immunologici e vascolari osservati nella sclerosi multipla.

L'ipotesi descritta è compatibile con molti dei fatti noti sulla patogenesi della sclerosi multipla e fornisce quindi un quadro di riferimento per ulteriori ricerche su un’eziologia venosa della malattia.

Se la sclerosi multipla deriva da una venulite infettiva cronica piuttosto che da una sindrome che coinvolge malformazioni venose congenite trunculari, saranno necessarie terapie aggiuntive agli interventi di angioplastica, attualmente in uso, per ottimizzare i risultati. ( Xagena2012 )

Thibault PK, Phlebology 2012; Epub ahead of print


Neuro2012 Inf2012

Sclerosi Multipla: una revisione sugli ecocolordoppler per il Metodo Zamboni

9 febbraio 2012


 

http://it.paperblog.com/sclerosi-multipla-una-revisione-sugli-ecocolordoppler-per-il-metodo-zamboni-873053/

E’ stata pubblicata sul sito della prestigiosa rivista Phlebology una revisione intitolata “Ecocolordoppler extracranico e transcranico nella diagnosi dell’insufficienza venosa cronica cerebro spinale” da parte di un team di neurologi olandesi.
Secondo gli autori una nuova malattia delle vene, l’insufficienza venosa cronica cerebro spinale (CCSVI), è stata proposta nei pazienti con sclerosi multipla (SM). Si tratta di una condizione vascolare caratterizzata da un alterato drenaggio venoso cerebro-spinale a causa di ostruzioni nelle principali vie di deflusso cerebrovenoso extracranico (vale a dire le vene giugulari interne e/o la vena azygos). Nella revisione sono stati discussi gli studi con ecocolordoppler (ECD) che hanno valutato la prevalenza di CCSVI nella SM. Gli aspetti tecnici di determinazione dei cinque criteri CCSVI sono stati descritti dettagliatamente: (1) reflusso nelle vene giugulari e/o vertebrali in posizione supina e seduta, (2) reflusso nelle vene cerebrali profonde, (3) stenosi prossimale della vena giugulare ad alta risoluzione B-mode, (4) flusso non rilevabile nelle vene giugulari e/o vertebrali e (5) il controllo posturale della vie principali di deflusso cerebrovenoso viene descritto nel dettaglio.

Gli autori hanno concluso che finora non ci sono molti studi (con risultati contraddittori) con una solida base scientifica per sostenere la prova di un rapporto causale della CCSVI con la SM. Recenti studi hanno messo in discussione la validità dell’utilizzo dell’ECD come esame corretto ed affidabile per la diagnosi della CCSVI. Una spiegazione per la varietà di interpretazione dei singoli criteri CCSVI con percentuali molto differenti di CCSVI, potrebbe essere dovuta ai diversi metodi di utilizzo dell’ECD per determinare i vari criteri.

Questa revisione potrebbe indirettamente spiegare i primi risultati dello studio “Cosmo” che l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (Aism) ha annunciato nell’ottobre scorso dichiarando che ad oggi sulla base di dati preliminari, la presenza di CCSVI è stata osservata globalmente in meno del 10% dei soggetti esaminati.
Va infatti ricordato che già nel 2010, prima della partenza dello studio Cosmo di Aism, il prof. Zamboni dell’Università di Ferrara, il chirurgo vascolare che ha scoperto la CCSVI nel 2007, si era dimesso dal Comitato Scientifico dichiarando alla stampa che il protocollo Aism rischiava di non riuscire a dimostrare nulla a causa di alcuni difetti di procedura.
Il rischio che l’Aism abbia buttato al vento 1,4 milioni di euro purtroppo sembra molto concreto.

05/04/12

ASCOLTAMI...

ei tu...si tu..proprio tuuu

ASCOLTAMI....

TI DEVO DIRE DELLE COSE..

e non guardarti indietro...e non guardare se c'e' gente accanto a te..perche' sto parlando proprio con te..

ALLORA DAI NON DIVENTARE ROSSO/A
su apri gli occhi e leggi attentamente:

Ti voglio bene
AMICO/A

Ti voglio bene non solo per quello che sei,
ma per quello che sono io quando sto con te.

Ti voglio bene non solo per quello che hai fatto di te stesso/a, ma per ciò che stai facendo di me.

Ti voglio bene perché tu hai fatto più di quanto abbia fatto qualsiasi fede per rendermi migliore,

e più di quanto abbia fatto qualsiasi destino per rendermi felice.

L'hai fatto senza un tocco, senza una parola, senza un cenno.

L'hai fatto essendo te stesso/a.
Forse, dopo tutto, questo vuol dire essere un/a amico/a.
-- Anonimo (non e' mia ma la dedico a VOI)

22/03/12

MARZO 2011 CIRCOLARE CCSVI DEL MINISTERO DELLA SALUTE















































nulla da dichiarare in merito....

I NUMEROSI ASPETTI SONOGRAFICI DELL’INSUFFICIENZA VENOSA CEREBRO-SPINALE

I NUMEROSI ASPETTI SONOGRAFICI DELL’INSUFFICIENZA VENOSA CEREBRO-SPINALE: COME ESEGUIRE UN ESAME DOPPLER IN UN PAZIENTE CON SCLEROSI MULTIPLA

(Traduzione in Italiano dell’articolo: “THE MANY SONOGRAPHIC FACES OF THE CHRONIC CEREBROSPINAL VENOUS INSUFFICIENCY: HOW TO PERFORM DOPPLER EXAMINATION IN A MULTIPLE SCLEROSIS PATIENT” del Dr. M. Simka)
Nel paziente con Sclerosi Multipla quasi sempre si sono trovati degli ostacoli al flusso venoso nelle vene extracraniche drenanti il sistema nervoso centrale. Questi blocchi al deflusso venoso sono descritti come Insufficienza Venosa Cerebro-Spinale Cronica (CCSVI) ed i parametri tipici dell’Insufficienza Venosa Cronica Cerebro-Spinale nell’esame con gli ultrasuoni è altamente patognomonica per la Sclerosi Multipla.
Gli ostacoli venosi che compromettono il deflusso del sangue dal cervello e dal midollo spinale possono essere molto differenti tra loro; una intera costellazione di patologie venose può essere trovata quali: occlusioni, stenosi, restringimenti, setti, valvole invertite. Attualmente si pensa che questi ostacoli venosi siano primariamente congeniti benché la presenza di lesioni post-traumatiche o post-trombotiche è anche possibile. Ad ogni modo, quali che siano le reali origini di queste occlusioni o stenosi venose, è necessario guardare in modo corretto a queste patologie venose per mezzo di un EcoColorDoppler per capire i principi emodinamici che governano il deflusso venoso dal cervello e dal midollo spinale; entrambi, sia il cervello che il midollo spinale, sono chiusi in camere ossee (il cranio nel caso del cervello e la colonna vertebrale nel caso del midollo spinale) perciò i vasi che drenano direttamente da questi organi sono in primo luogo, non collassabili, il che significa che essi contengono approssimativamente lo stesso volume di sangue indipendentemente dalla velocità e dalla direzione flusso; in secondo luogo, essi non possono retrarsi o dilatarsi in conseguenza dei cambi di pressione o delle resistenze al deflusso come fanno le vene varicose. In più, le vene cerebrali e i seni cerebrali così come le vene spinali e i plessi venosi del midollo spinale sono privi di valvole e le caratteristiche del flusso in questi vasi dipendono quasi esclusivamente dal livello delle resistenze al deflusso nelle vene extracraniche ed extraspinali. Perciò, nonostante la natura avalvolata di queste vene, a causa della loro localizzazione all’interno di camere ossee rigide, un reflusso simile a quello che accompagna le vene varicose non può verificarsi. Naturalmente, reflussi nelle vene che drenano il sistema venoso centrale possono essere riscontrati, ma essi sono piuttosto manifestazioni di shunt vicarianti (flussi che bypassano un ostacolo) ed essi differiscono in maniera significativa da quelli che sono trovati nelle vene varicose.
Allo stato attuale i più fini dettagli dell’emodinamica venosa nel territorio cerebrale e del midollo spinale non sono completamente chiariti. Tuttavia i principi base del fisiologico ritorno venoso dal cervello sono i seguenti:





a) in posizione supina il ritorno venoso dal cervello è mantenuto principalmente attraverso le vene Giugulari Interne (fig. 1);
Fig. 1
b) al contrario, in una posizione eretta il deflusso del sangue principalmente avviene attraverso il plesso venoso epidurale e le vene Vertebrali (fig. 2).
Fig. 2
Ma perché il deflusso del sangue passa attraverso vie diverse a seconda della posizione del corpo?
La sezione trasversa di entrambe le vene Giugulari Interne è comparabile a quella del plesso venoso epidurale e delle vene Vertebrali e perciò queste due vie possono essere viste come l’una alternativa all’altra.
In più, dovrebbe essere sottolineato che le vene Giugulari Interne sono collassabili mentre il plesso venoso epidurale e, con minor possibilità di estensione, le vene Vertebrali, grazie alla loro localizzazione anatomica, sono piuttosto non collassabili.
Nella posizione supina, quando entrambe le vie sono in teoria perfettamente pervie, il deflusso del sangue passa prevalentemente attraverso le vene Giugulari, giacché questi vasi sono più ampi se comparati con quelli Vertebrali, i quali consistono piuttosto in un gruppo di piccole vene e di plessi venosi e perciò presentano resistenze vascolari maggiori (questo dipende non soltanto dalla sezione trasversa totale ma anche dalla sezione trasversa di ogni singolo vaso) rispetto alla via Giugulare che ne risulta a minor resistenze. Conseguentemente, nella posizione supina il deflusso del sangue passa prevalentemente attraverso le vene Giugulari.
Al contrario, nella posizione eretta grazie agli effetti della gravità le vene Giugulari Interne collassano. Grazie ai loro diminuiti diametri essi generano resistenze più elevate se comparate con la via Vertebrale. Perciò nella posizione eretta il deflusso del sangue dal cervello passa prevalentemente attraverso il plesso venoso epidurale e le vene Vertebrali. Se si comprendono i principi delle caratteristiche sopradescritte del ritorno venoso fisiologico, è più facile capire perché differenti localizzazioni degli ostacoli venosi risultino in aspetti molto diversi dal punto di vista sonografico. In più è possibile dedurre dagli aspetti sonografici dove una lesione potrebbe essere riscontrata anche se questa non è direttamente accessibile. Di qui noi cercheremo di discutere i parametri anormali del flusso venoso dalla prospettiva della emodinamica del ritorno venoso del cervello e della parte superiore del midollo spinale.
1) Stenosi o occlusioni della vena Giugulare Interna
Le vene Giugulari Interne, così come le vene Vertebrali, dovrebbero essere studiate usando una sonda lineare ad alta frequenza così come si fa nell’esame delle Carotidi. La sonda dovrebbe essere applicata con minima pressione sulla pelle per evitare la compressione della vena stessa.
Gli ostacoli venosi possono essere direttamente visualizzati, ma la presenza di una tale lesione può anche essere diagnosticata indirettamente. Si deve ricordare che le vene Giugulari Interne possono essere occluse da molte differenti strutture patologiche; queste possono essere restringimenti della vena (normalmente la porzione ristretta della vena evidenzia un ispessimento della sua parete); un setto membranoso o setto in forma di rete (queste strutture sono normalmente trovate nella più bassa porzione della vena), o valvole invertite (sono usualmente localizzate alla giunzione con la vena Brachio-Cefalica).
Giacché un ostacolo nella vena Giugulare Interna è una fonte di resistenze vascolari addizionali, le caratteristiche del flusso cambiano in caso di ostruzione. La ricerca di occlusioni delle vene Giugulari Interne dovrebbe primitivamente essere fatta in posizione supina poiché in questa situazione emodinamica le vene Giugulari sono fisiologicamente dilatate ed è più facile trovare una lesione. Ad ogni modo le vene dovrebbero essere anche studiate in posizione eretta o seduta per guardare più da vicino le modificazioni emodinamiche.
a) Segmento basso della vena Giugulare Interna
In caso di costringimento unilaterale localizzato nella porzione più bassa della vena Giugulare Interna, il flusso nella vena può essere ridotto se comparato con quella controlaterale (Fig. 3).
Fig. 3
La vena a monte rispetto al restringimento può essere dilatata o addirittura sviluppare un aneurisma venoso (Fig. 4)
Fig. 4
Se una struttura simile a un setto o una valvola patologica è riconosciuta dovrebbe essere controllata col Doppler sia che si tratti di una struttura reale sia che si tratti di un artefatto; nel caso che sia una vera ostruzione, lo spettro Doppler che si ottiene dalla vena a monte e a valle del setto differisce in maniera significativa, mentre in caso di un artefatto l’analisi Doppler a monte e a valle saranno sostanzialmente uguali (Fig. 5).
Fig. 5
La bilaterale occlusione e/o stenosi nelle porzioni più basse delle vene Giugulari Interne normalmente risulta in un abnormemente alto deflusso venoso attraverso la via delle vene Vertebrali nella posizione supina (Fig. 6).
Fig. 6
b) Segmento intermedio della vena Giugulare Interna
Usualmente non c’è problema nella visualizzazione di una stenosi nella porzione media della vena Giugulare Interna; tutti i flussi nelle vene stenosate possono essere diminuite ma nell’area di costringimento il flusso può essere accelerato (in maniera simile con quanto succede in una stenosi dell’arteria Carotide). Il flusso attraverso le vene Vertebrali nella posizione supina può essere in questi casi aumentato (Fig. 7).
Fig. 7
c) Segmento alto della vena Giugulare Interna
Le lesioni che sono localizzate alla base del cranio possono essere visualizzate difficilmente con gli ultrasuoni, ad ogni modo nel caso di stenosi bilaterali il flusso attraverso le vene Vertebrali nella posizione supina sarà abnormemente alto (Fig. 8).
Fig. 8
Un flusso asimmetrico può anche essere rilevato nel caso di una stenosi significativa di una singola Giugulare Interna (Fig. 9).
Fig. 9
2) Reflusso nella vena Giugulare Interna o nelle vene Vertebrali
Nei pazienti con sclerosi multipla il reflusso patologico o la direzione del flusso invertita in realtà rappresentano degli shunt vicarianti: rappresentano una direzione del flusso invertita che bypassa un ostacolo. Usualmente i reflussi sono rilevati ad una certa distanza dagli ostacoli.
a) Stenosi nella vene Giugulare Interna:
Troveremo un aumento del flusso nelle vene Vertebrali (Fig. 10).
Fig. 10

b) Stenosi nella vena Azygos
Possiamo trovare un’inversione del flusso delle vene Vertebrali (Fig. 11).
Fig. 11
3) Flusso non rilevabile nelle vene Giugulari Interne o nelle vene Vertebrali.
In alcuni casi il gradiente di pressione secondaria ad un ostacolo venoso non è sufficiente a produrre un flusso invertito ossia un reflusso, ma a causa delle pressioni che si bilanciano all’interno dei segmenti venosi colpiti, il flusso per così dire si arresta. Nella vene Giugulari Interne una tale situazione può accadere in caso di occlusione della vena o di un segmento di questa vena (Fig. 12). Nelle vene Vertebrali un flusso non visibile può essere un segno della occlusione della vena Azygos (Fig. 13).
Fig. 12
Fig. 13
4) Assenza di cambiamenti in rapporto alla posizione dei diametri delle vene Giugulari Interne
In condizioni fisiologiche le vene Giugulari Interne sono dilatate in posizione supina mentre in posizione eretta tendono a collassare per gli effetti della gravità (Fig. 14):
Fig. 14
Ma in caso di ostacolo al deflusso venoso, in alcuni pazienti, queste vene non collassano nella posizione eretta, talvolta esse addirittura si dilatano in rapporto al diametro che si misura nella posizione supina. Questo può risultare da una parete venosa rigida nella zona della stenosi (Fig. 15) o può essere dovuto alla presenza di valvole invertite o ad un altro ostacolo nella parte più bassa della vena (Fig. 16). Inoltre le vene Giugulari Interne non collassano nel caso di una
Totale ostruzione delle vie Vertebrali (Fig. 11).
Fig. 15
Fig. 16
5) Riflusso nelle vene Cerebrali Profonde
In caso di ostruzione della vena Giugulare o della vena Azygos il flusso venoso deve bypassare l’ostacolo. In molti pazienti questa via secondaria si produce attraverso le vene Cerebrali (Fig. 10 e 11). In questa situazione emodinamica il deflusso dalle strutture profonde del cervello è profondamente compromesso. Questa parte del cervello è drenata attraverso la grande vena di Galeno e le sue tributarie, vena di Rosenthal e le vene cerebrali profonde (Fig. 17).
Fig. 17
Nella condizione emodinamica in cui le vene principali Cerebrali non riescono più nel loro proposito di drenare il sangue dal cervello ma piuttosto di bypassarlo il flusso nella grande vena di Galeno può essere con direzione invertita o addirittura si può sviluppare un flusso verso le vene Corticali (Fig. 17). Le vene Cerebrali Superficiali data la loro molto bassa velocità di flusso non possono essere insonorizzate coi metodi ultrasonici convenzionali. Le vene Cerebrali Profonde, la grande vena di Galeno, la vena di Rosental e le vene Cerebrali Interne ad ogni modo possono essere insonorizzate con il color Doppler attraverso la finestra acustica trans-temporale. Per l’identificazione delle vene intracraniche dovrebbe essere utilizzata una sonda convex a 2.5 Mhz. Un programma sensibile alle basse velocità con un basso filtro di parete deve essere utilizzato e con un PRF altrettanto basso. Il guadagno del colore dovrebbe essere invece aumentato sino al limite della comparsa degli artefatti.
Il flusso venoso normale evidenziato dal Doppler nelle vene Cerebrali Profonde diversamente dalle vene periferiche mostra una bassa pulsatilità con una costante monodirezionalità del flusso (Fig. 18) la qual cosa potrebbe essere simile al segnale che può derivare da una piccola arteria ma con un’ampiezza della pulsatilità molto più bassa. Questa monodirezionalità del flusso può essere aumentata e diminuita attraverso la respirazione ma la sua attivazione avviene soltanto durante una fase della respirazione (Fig. 19); un flusso bidirezionale oppure alte velocità di flusso monidirezionali verso la sostanza bianca sottocorticale dovrebbe essere identificata come patologica.
Fig. 18

Fig. 19