CONTATORE PERSONE

07/12/19

Ti presento il microbiota!

A.D.

Salito agli onori delle cronache recenti il microbiota intestinale umano è costituito da una massa notevole di batteri che hanno un ruolo importante nel determinare il nostro stato di salute o, se il delicato equilibrio che ne regola le interazioni con l’ospite viene alterato, nel rendere possibile lo sviluppo di diverse patologie.

Il nostro corpo è popolato da un grandissimo numero di batteri — si stima che per ogni cellula umana ce ne siano dieci batteriche — batteri che sono variamente distribuiti nell’organismo, con una elevatissima concentrazione, oltre il 70% del totale, nell’apparato digerente, dove costituiscono il microbiota intestinale umano, quello che una volta si chiamava, in maniera non del tutto corretta, flora batterica intestinale.

Un intestino affollato

Negli esseri umani il tratto gastrointestinale ospita una popolazione di circa 200 migliaia di miliardi di batteri, un numero assolutamente impressionante. La maggior parte di questi microrganismi sono degli anaerobi stretti, ossia batteri che possono crescere esclusivamente in assenza di ossigeno, più abbondanti di almeno due o tre ordini di grandezza degli anaerobi facoltativi e degli aerobi. Si ritiene che siano presenti oltre 50 phylum batterici, tuttavia sono due quelli dominanti, Bacteroidetes e Firmicutes, con presenza in proporzioni decisamente minori di Proteobacteria, Verrucomicrobia, Actinobacteria, Fusobacteria, e Cianobacteria. Diversi studi hanno stimato che in un singolo individuo il microbiota intestinale comprende dalle 500 alle 1000 specie, mentre complessivamente nell’uomo sono state individuate oltre 35.000 specie diverse.
Il microbiota non è distribuito in maniera omogenea nel tratto gastrointestinale. Nello stomaco e nel duodeno la popolazione batterica è esigua, da dieci a mille cellule per grammo di contenuto. Nel digiuno e nell’ileo il numero di batteri aumenta decisamente, da diecimila a dieci milioni di cellule per grammo di contenuto, per raggiungere la densità più elevata nel colon, dove si possono avere da cento a mille miliardi di cellule batteriche per grammo di contenuto.
Nel tratto gastrointestinale non varia soltanto la quantità ma anche la distribuzione del microbiota: nell’intestino tenue predominano sopratutto Bacilli, una classe di Firmicutes, e Actinobacteria, mentre nel colon troviamo Bacteroidetes e Lachnospiraceae, famiglia dei Firmicutes.
Infine la distribuzione di questi batteri varia anche tra il lume intestinale, dove abbondano specie come Bacteroides, Bifidobacterium, Streptococcus, Enterococcus, Clostridium, Lactobacillus e Ruminococcus, e il rivestimento mucoso che ricopre l’epitelio intestinale dove predominano Clostridium, Lactobacillus e Enterococcus.
Ci sono anche differenze rilevanti tra la popolazione batterica di individui provenianti dai paesi occidentali sviluppati e quella di soggetti di altre aree del mondo. Inoltre il microbiota si modifica con l’età e in funzione di un gran numero di altri fattori: genetica, dieta, peso corporeo e terapie antibiotiche sono tra i principali, con variazioni importanti a livello di specie, mentre la distribuzione tra i diversi Phylum rimane relativamente costante, probabile indizio di una forte pressione selettiva a mantenere quei gruppi di batteri necessari a mantenere funzioni essenziali.
In definitiva stiamo parlando di diverse centinaia di grammi di batteri che vivono nel nostro intestino e che di certo ne influenzano funzioni, fisiologia e patologia in molti modi diversi, oggetto di un gran numero di studi negli ultimi anni. [1, 2, 3, 4, 5]

Da dove viene il microbiota?

Alla nascita il tratto gastrointestinale dovrebbe essere sterile, anche se studi recenti hanno mostrato che nel meconio, il materiale contenuto nell’intestino del feto e espulso dopo la nascita, possono già essere presenti batteri.
La colonizzazione vera e propria inizia con il passaggio nel canale del parto ei primi batteri a comparire sono soprattutto anaerobi. Nei primi tre anni la popolazione batterica cambia notevolmente e tende a convergere su quella che sarà la compagine tipica dell’età adulta verso i tre anni.
Sono numerosi i fattori che possono influenzare le modalità del processo di colonizzazione. In primo luogo si notano differenze tra nati con parto normale e quelli nati da cesareo, alcuni studi addirittura evidenziano un possibile ruolo della dieta della madre e del suo peso corporeo. Sicuramente importante è la dieta del neonato, il fatto che sia allattato al seno o utilizzando latte artificiale, tempo e modalità di svezzamento e cibi utilizzati, e eventuali terapie antibiotiche che si rendano necessarie in questa fase.
Tempi e modalità di colonizzazione nei primi tre anni di vita rivestono un ruolo probabilmente molto importante nella comparsa di patologie nel periodo successivo: alcuni studi mostrano come soggetti fortemente allergici abbiano popolazioni ridotte di Lattobacilli, mentre una colonizzazione da parte di Clostridium difficile nei primi mesi di vita è associata a atopia e asma nei primi sei anni.
L’ipotesi dell’igiene postula che nel mondo occidentale negli ultimi cinquanta anni si sia eccessivamente ridotta l’esposizione a microrganismi e batteri — a causa dei costanti e diffusi miglioramenti dello stile di vita — con un progressivo aumento delle patologie allergiche e autoimmuni. Proposta da Greenwood nel 1968, ripresa da Strachan nel 1989, attualmente riformulata come ipotesi della microflora, in sostanza sottolinea come sia cruciale il processo di colonizzazione e sviluppo del microbiota nei primi anni di vita, sottolineando l’importanza di tutti quei fattori che possono concorrere ad alterarlo e a favorire quindi l’insorgenza di un gran numero di patologie.
Si apre un ambito di studi davvero interessante, volto a stabilire se esistano delle modalità “normali” di colonizzazione, un’indagine di certo non semplice date le molteplici variabili in gioco e le difficoltà di valutare e misurare i dati d’interesse. [6, 7, 8, 9]
La colonizzazione del nostro intestino comincia durante il parto e continua poi con l’allattamento. Il microbiota va poi a stabilizzarsi verso i tre anni di vita, mantenendo una certa variabilità, in funzione di fattori diversi.

Cosa fa il microbiota?

La relazione che esite tra ciascuno di noi e proprio microbiota è una relazione di simbiosi, una situazione che è vantaggiosa per entrambi i partecipanti. Il nostro ruolo è quello di fornire un ambiente caldo, protetto e ricco di cibo ai batteri che, in cambio, contribuiscono alla nostra salute.
La maggior parte delle indicazioni sull’effetivo ruolo di questi batteri ci viene dallo studio di animali che ne sono privi: si tratta di animali che mostrano riduzione del volume di molti organi, alterazioni della motilità intestinale, sviluppo anomalo del sistema linfatico e alterazioni di numerosi parametri: tutte queste alterazioni si riducono o scompaiono quando ne viene ricostituito il microbiota, suggerendo diverse aree in cui questo gioca un ruolo importante.
In primo luogo il microbiota svolge un importante ruolo metabolico. Le diverse centinaia di specie presenti presentano un corredo enzimatico estremamente vario che è profondamente diverso dal nostro. Il nostro colon, con la sua ricca presenza di batteri, è in pratica un bioreattore dove i residui non digeriti o non digeribili del cibo consumato diventano il substrato, il pane quotidiano, del microbiota.
La fermentazione operata dal microbiota porta alla formazione di acidi grassi a catena corta — acetato, propionato e butirrato — che abbassano il pH del lume intestinale sopprimendo l’accrescimento di potenziali patogeni e favorendo l’assorbimento di calcio, magnesio e ferro. Sono prodotte anche molte altre sostanze come lattato, piruvato, etanolo, succinato e gas, specie idrogeno, anidride carbonica, metano e acido solfidrico.
Alcune delle sostanze prodotte dai batteri sono utilizzate da cellule e tessuti: il butirrato è nutriente prezioso per le cellule che costituiscono l’epitelio intestinale e ne regola crescita e differenziazione, mentre l’acetato è metabolizzato nel muscolo, nel cuore e nel cervello.
Mentre nella parte iniziale del colon predomina la fermentazione di carboidrati, nella parte terminale – dove la quantità di fibre fermentabile è decisamente ridotta — sono le proteine che derivano dalla desquamazione dell’epitelio a diventare substrato dei processi fermentativi del microbiota. Un’eccessiva fermentazione proteica è stata posta in relazione con patologie come la colite cronica ulcerosa e alcune forme di tumore del colon, quindi un aumento della porzione di fibre nella dieta potrebbe svolgere un ruolo protettivo, riducendo l’entità della fermentazione di aminoacidi da parte dei batteri intestinali.
Il microbiota svolge anche un importante ruolo protettivo. I batteri intestinali sono una efficace barriera che inibisce ingresso e sviluppo di microrganismi provenienti dall’esterno e di specie opportuniste la cui crescita è normalmente ridotta. L’ecosistema intestinale è in uno stato di equilibrio dinamico che può essere facilmente turbato da fattori esterni: terapia antibiotiche prolungate possono rompere questo equilibrio e portare alla sovracrescita di patogeni opportunisti come Clostridium difficile.
Il microbiota forma una vera e propria barriera aderendo alla mucosa intestinale, impedendo quindi adesione e ingresso di specie patogene. Alcuni studi hanno evidenziato come certe specie possano arrivare a modulare la produzione da parte dell’ospite di sostanze necessarie alla crescita batterica, facendo sì che la disponibilità dei nutrienti non risulti mai eccessiva e risulti fattore limitante per la crescita di eventuali opportunisti.
Varie specie batteriche producono sostanze in grado di inibire la crescita dei competitori, le batteriocine, delle tossine proteiche estremamente efficaci, allo studio per diverse applicazioni, dalla conservazione degli alimenti, alla terapia di infezioni; tra i maggiori produttori di batteriocine troviamo i Lattobacilli.
Il microbiota intestinale è determinante nello sviluppo del sistema immunitario. Il microbiota lavora con gli elementi del sistema immunitario per raggiungere due obiettivi che paiono in forte contrasto tra di loro: da una parte prevenire una risposta immunitaria eccessiva che potrebbe danneggiare i commensali presenti, dall’altra garantire un’azione di controllo che eviti crescita eccessiva o trasferimento in altri siti, permettendo comunque di intervenire quando siano presenti microrganismi patogeni provenienti dall’esterno o opportunisti.
Il ruolo dei batteri intestinali in questo processo è reso evidenti da studi su animali che ne sono privi: in queste condizioni si notano alterazioni del numero e del tipo di cellule del sistema immunitario presenti, dei loro prodotti e della loro distribuzione, con alterazione delle strutture linfatiche, non solo intestinali, ma dell’intero organismo. L’assenza del microbiota porta allo sviluppo di soggetti immuno-deficienti, altamente suscettibili a infezioni determinate da patogeni o da opportunisti. Mancano anche gli adattamenti a antigeni normalmente presenti nella dieta come l’ovoalbumina e appare ridotta anche la tolleranza agli antigeni indotta dalla presentazione orale. Nel soggetto giovane la situazione anomala può essere corretta dalla reintegrazione del microbiota, mentre ciò non avviene nell’adulto.
Appare evidente che le interazioni tra la popolazione batterica e la componente immunitaria della mucosa intestinale durante i primi anni di vita sono essenziali per fornire informazioni, “istruzioni”, critiche per lo sviluppo di un sistema immunitario ben funzionante: interazioni che nel corso della vita andranno poi a modulare l’immunità locale e sistemica, in un continuo scambio tra ospite e commensale. [10, 11, 12, 13, 14, 16]

Microbiota e malattie

Visti i diversi ed importanti ruoli che il microbiota ricopre non risultano inattesi i risultati di un gran numero di lavori che pongono in relazione alterazioni della popolazione batterica intestinale e un nutrito e variegato gruppo di patologie.
Sindrome dell’intestino irritabile, diarrea, costipazione e altre sindromi funzionali dell’intestino sono tutte state poste in relazione con alterazioni più o meno profonde del microbiota o crescite anomale in distretti dove la presenza di batteri è minore, specie nell’intestino tenue. Alcuni studi pongono in relazione le patologie indicate con una riduzione della popolazione appartenente ai generi Bifidobacterium e Lactobacillus e un aumento del rapporto Firmicutes/Bacteroidetes, fenomeni che sono accompagnati da alterazioni del transito intestinale e da espressione da parte delle cellule della mucosa di geni coinvolti nella reazione infiammatoria, con rilevante impatto su risposta immunitaria e integrità della mucosa stessa.
Studi recenti pongono in relazione alterazioni del microbiota con diverse malattie metaboliche e con l’obesità.I risultati non sono di semplice interpretazione visto che in popolazioni umane diverse si notano variazioni difformi per quel che riguarda abbondanza e diversità delle specie coinvolte. Probabilmente non sono soltanto le modificazioni di specie e rapporti a svolgere un ruolo importante, ma anche alterazioni dell’espressione dei geni delle popolazioni batteriche presenti che a loro volta determinano modifiche delle funzioni metaboliche dell’ospite.
Interessanti studi pongono in relazione i lipopolisaccaridi (LPS) di membrana derivati dal microbiota con lo sviluppo di infiammazione e e obesità, attraverso il continuo scambio di segnali che avviene a livello del sistema immunitario, mentre altri lavori indicano come gli acidi grassi a catena corta prodotti dai batteri intestinali possano interferire con i processi metabolici dell’ospite, modificando i livelli di alcuni ormoni prodotti nell’intestino, ormoni il cui compito è regolare i meccanismi che determinano sazietà e appetito. In molti studi risulta in particolar modo importante la quota di grassi saturi consumata, con un apporto elevato di questi grassi particolarmente efficace nel promuovere obesità e possibili complicazioni, tra cui il diabete di tipo 2: risulta evidente l’interazione tra dieta e microbiota e le potenziali consenguenze negative di una dieta non equilibrata protratta nel tempo.
Un nuovo ambito di indagine è quello che indaga il legame tra microbiota e patologie del sistema nervoso. Alcuni studi sembrano indicare come alterazioni profonde del microbiota possano avere un ruolo nella genesi della Sindrome di Alzheimer. Altri lavori indicano come alterazioni del microbiota possono portare a modifiche importanti del comportamento, probabilmente attraverso alterazioni di quello che i ricercatori chiamano asse cervello-intestino, il cui ruolo non è solo quello di controllare l’assunzione di cibo ma è probabilmente molto più profondo e importante e potrebbe contribuire all’insorgere di patologie come depressione, schizofrenia e disturbi dello spettro autistico. Al momento la maggior parte dei lavori è su modelli animali, ma i pochi dati disponibili da studi su umani risultano estremamente interessanti e suggeriscono la necessità di indagini più rigorose e approfondite. [17, 18, 19, 20, 21]

Dieta, antibiotici, probiotici e microbiota

Sin dalla nascita la dieta ha un ruolo cruciale nel determinare sviluppo e natura del microbiota. L’allattamento al seno, vista la presenza di composti bioattivi nel latte materno, pare promuovere lo sviluppo di un microbiota in cui predominano varie specie di Bifidobacterium, essenziali per un buon equilibrio del microbiota.
Nell’adulto la dieta rimane il fattore predominante nel determinare l’equilibrio del microbiota. Un’alimentazione ricca di verdura, frutta e cereali integrali garantisce un elevato apporto di quelle fibre che sono garantiscono massima ricchezza e diversità del microbiota. Modifiche anche temporanee della dieta possono comportare alterazioni importanti della compagine batterica. Interessanti i lavori che indicano come il consumo di alcune alghe ricche di fibre possa aumentare in maniera significativa la popolazione di Bifidobacterium, mentre la tipica dieta occidentale, ricca in zuccheri e povera in fibre, sembra favorire lo sviluppo di Bacteroides.
Un fattore importante nel mondo occidentale è il diffuso utilizzo di antibiotici che, accanto alla loro attività battericida verso i patogeni, hanno mostrato anche di poter alterare gli equilibri e le sottili e complesse reti di relazioni tra i batteri del microbiota intestinale e il sistema immunitario dell’ospite. L’uso indiscriminato di antibiotici potrebbe quindi esporre al rischio di infezioni intestinali a causa della riduzione dell’azione di inibizione competitiva operata dal microbiota, a causa di una riduzione della diversità e dell’abbondanza delle varie specie presenti, persistente nel tempo anche molto tempo dopo la cessazione della terapia. Inoltre, a causa di un possibile aumento dei processi di trasmissione genetica tra batteri, quando si utilizzino in maniera indiscriminata antibiotici ad ampio spettro potrebbe addirittura essere favorita la diffusione di specie antibiotico-resistenti tra i patogeni, eventualità assolutamente da evitare.
I probiotici sono definiti dalla WHO (World Health Organization) come organismi che consumati in quantità adeguate possano comportare vantaggi per la salute umana. Molte specie di batteri hanno mostrato di poter soddisfare questi requisiti, trra le più note Lactobacillus casei, Lactobacillus planatarum, Lactobacillus bulgaricus, Lactobacillus acidophilus, Bifidobacterium longum, Bifidobacterium infantis, Streptococcus thermophilus. Il razionale per il loro utilizzo — sia a livello commerciale nella crescente massa di prodotti arricchiti con questi ceppi, sia al livello terapeutico con prodotti mirati per il trattamento di diverse patologie intestinali — è che questi batteri andrebbero a supportare la funzione immunomodulatoria e di barriera del microbiota umano.
I reali risultati sono notevolmente variabili, tuttavia prevale un cauto ottimismo sulla base dei risultati di studi scientifici dove specifici ceppi sono stati utilizzati per scopi ben mirati e con quantità e modalità di somministrazione ben controllate. Diverso è il caso di molti prodotti commerciali, la cui efficacia è tutta da verificare, sebbene i vari claim utilizzati dai produttori siano sottoposti ad un rigoroso controllo da parte delle autorità preposte.
È interessante sottolineare come diversi studi abbiano mostrato la possibile esistenza di un legame tra longevità e microbiota. La diversità del microbiota sembra declinare con l’età ma in soggetti molto longevi, oltre i 105 anni, si registra il mantimento di una buona diversità con presenza costante di un gruppo di famiglie, soprattutto Ruminococcaceae, Lachnospiraceae e Bacteroidaceae e un aumento di specie associate a buone condizioni di salute come Akkermansia, Bifidobacterium, Christensenellaceae. [22, 23, 24, 25, 26, 27, 28]
Per chiudere questa prima carrellata, i cui temi approfondiremo in articoli futuri, mi sovviene uno slogan che spero sia davvero convincente: prendetevi cura del vostro microbiota e il vostro microbiota si prenderà cura di voi.

“prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D”

AIFA Nota 96 - Prescrizione a carico del SSN dei farmaci con indicazione “prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D”

A.D.

Nota 96

Farmaci in Nota: colecalciferolo, colecalciferolo/Sali di calcio, calcifediolo
Farmaci inclusi nella Nota AIFA:
  • colecalciferolo
  • colecalciferolo/Sali di calcio
  • calcifediolo
La prescrizione a carico del SSN dei farmaci con indicazione “prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D” nell’adulto (>18 anni) è limitata alle seguenti condizioni:
Prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D nei seguenti scenari clinici:
indipendentemente dalla determinazione della 25(OH) D
  • persone istituzionalizzate
  • donne in gravidanza o in allattamento
  • persone affette da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate non candidate a terapia remineralizzante (vedi nota 79)
previa determinazione della 25(OH) D (vedi algoritmo allegato)
  • persone con livelli sierici di 25OHD < 20 ng/mL e sintomi attribuibili a ipovitaminosi (astenia, mialgie, dolori diffusi o localizzati, frequenti cadute immotivate)
  • persone con diagnosi di iperparatiroidismo secondario a ipovitaminosi D
  • persone affette da osteoporosi di qualsiasi causa o osteopatie accertate candidate a terapia remineralizzante per le quali la
correzione dell’ipovitaminosi dovrebbe essere propedeutica all’inizio della terapia*
  • una terapia di lunga durata con farmaci interferenti col metabolismo della vitamina D
  • malattie che possono causare malassorbimento nell’adulto
* Le terapie remineralizzanti dovrebbero essere iniziate dopo la correzione della ipovitaminosi D.
Per guidare la determinazione dei livelli di 25OH vitamina D e la conseguente prescrizione terapeutica è possibile fare riferimento alla flow-chart allegata.

Background

La vitamina D viene prodotta per effetto sulla cute dei raggi ultravioletti di tipo B (lunghezza d’onda 290 - 315 nm) che trasformano un precursore, il 7 deidrocolesterolo (la pro-vitamina D), in pre-vitamina D e successivamente in colecalciferolo (vitamina D3). La vitamina D può essere quindi depositata nel tessuto adiposo o trasformata a livello epatico in 25OH vitamina D (calcidiolo o calcifediolo) che, veicolata da una proteina vettrice, rappresenta il deposito circolante della vitamina D. Per esercitare la propria attività biologica il 25OH colecalciferolo deve essere trasformato in 1-25 (OH)2 colecalciferolo o calcitriolo, ligando naturale per il recettore della vitamina D. La sede principale della 1-idrossilasi è il rene ma questo enzima è presente anche nelle paratiroidi, ed in altri tessuti epiteliali.
La funzione primaria del calcitriolo è di stimolare a livello intestinale l’assorbimento di calcio e fosforo, rendendoli disponibili per una corretta mineralizzazione dell’osso. In ambito clinico, esiste una generale concordanza sul fatto che la vitamina D promuova la salute dell’osso e, insieme al calcio (quando indicato), contribuisca a proteggere dalla demineralizzazione (in particolare negli anziani).
Il dosaggio della 25 OH vitamina D (25OHD) circolante è il parametro unanimemente riconosciuto come indicatore affidabile dello status vitaminico (Ross AC et al 2011, Holick MF et al 2011, Adami S et al 2011, NHS 2018, NICE 2016).
Diversi organismi scientifici hanno prodotto raccomandazioni per l’esecuzione del dosaggio della 25OHD.
I documenti sono per molti versi simili e partono dalla constatazione di base della inappropriatezza dello screening esteso alla popolazione generale (LeFevre ML et al 2015, LeBlanc EL et al 2015).
Le indicazioni all’esecuzione del dosaggio tuttavia differiscono tra i vari documenti di consenso. Esiste sostanziale concordanza sul concetto che la determinazione dei livelli di 25(OH)D dovrebbe essere eseguita solo quando risulti indispensabile nella gestione clinica del paziente (diagnostica differenziale o scelta della terapia).
Secondo i documenti prodotti da organismi regolatori, il dosaggio dovrebbe essere eseguito in un ristretto numero di pazienti con sintomi persistenti di profonda astenia, mialgie, dolori ossei diffusi o localizzati sospetti per osteomalacia o con PTH elevato o predisposizione alle cadute immotivate o in particolari condizioni di rischio (NHS 2018, NICE 2016). I documenti prodotti da Società Scientifiche riportano invece elenchi di categorie di persone a rischio di ipovitaminosi D tra le quali eseguire il prelievo; per esempio soggetti obesi includendo di fatto ampi strati della popolazione. (Cesareo R et al. AME 2018). Pare ragionevole limitare l’indagine a categorie ristrette notoriamente a rischio elevato come persone sintomatiche o chi assume cronicamente alcune categorie di farmaci (antiepilettici, glucocorticoidi, antiretrovirali, anti-micotici, colestiramina, orlistat etc.).
A scopo esemplificativo è stato elaborato un diagramma di flusso allegato.
Il valore di 25OHD pari a 20 ng/ml (50 nmol/l) è ritenuto, come supportato dalla letteratura scientifica, il limite oltre il quale viene garantito un adeguato assorbimento intestinale di calcio e il controllo dei livelli di paratormone nella quasi totalità della popolazione; per tale motivo esso rappresenta il livello sotto il quale iniziare una supplementazione (IOM 2011). L’intervallo dei valori compresi tra 20 e 40 ng/mL viene considerato come “desirable range” in base a motivazioni di efficacia, garantita oltre i 20 ng/mL, e sicurezza, non essendovi rischi aggiuntivi al di sotto dei 40 ng/mL (El-Hajj Fuleihan G et al. 2015).
Evidenze disponibili
L'apporto supplementare di vitamina D è uno dei temi più dibattuti in campo medico, fonte di controversie e di convinzioni tra loro anche fortemente antitetiche.
Gli studi “storici” hanno concluso in modo decisivo a favore dell’efficacia della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento di rachitismo ed osteomalacia (Mozolowski W 1939).
Studi più recenti e le meta-analisi che li includono, depongono a favore di una modesta riduzione del rischio di frattura delle dosi di vitamina D3 > 800 UI/die (specialmente se in associazione ad un apporto di calcio >1,2 g/die). Tra i vari studi inclusi nelle meta-analisi il peso maggiore spetta a quelli realizzati in ospiti di strutture protette mentre considerando solo popolazioni non istituzionalizzate, viventi in autonomia, la riduzione di rischio legata alla somministrazione di vitamina D risulta non significativa. (Trivedi DP et al. 2003, Bischoff-Ferrari HA et al. 2005, Bischoff-Ferrari HA et al 2012, Bolland MJ et al. 2014, Zhao JG et al 2017, USPSTF 2018, Bolland MJ et al. 2018). Tale effetto protettivo sul rischio di frattura negli ospiti delle strutture protette è la spiegazione più accreditata per giustificare il lieve effetto sulla riduzione di mortalità riscontrato in una revisione Cochrane nelle persone trattate con vitamina D (Bjelakovic G, 2014).
Diversi studi osservazionali hanno riportato in varie situazioni patologiche (cardiopatie, neoplasie, malattie degenerative, metaboliche respiratorie etc.) peggiori condizioni di salute in popolazioni con bassi livelli di vitamina D, questo ha portato a valutare con opportuni studi sperimentali l’efficacia della supplementazione con vitamina D nella riduzione del rischio di diverse patologie (soprattutto extrascheletriche). I risultati di trial clinici randomizzati (RCT) di elevata numerosità non hanno confermato tali ipotesi e hanno delineato in oncologia e cardiologia aree di documentata inefficacia della supplementazione con vitamina D (Lappe J et al. 2017, Khaw KT et al. 2017, Zittermann A et al .2017, Manson JE et al. 2019, Urashima M et al. 2019). Nonostante l’impiego di dosi relativamente elevate (2.000 UI/die e 100.000 UI/mese) le popolazioni trattate non presentavano vantaggi in termini di eventi prevenuti rispetto ai trattati col placebo.
Particolari avvertenze
Le principali prove di efficacia antifratturativa sono state conseguite utilizzando colecalciferolo che risulta essere la molecola di riferimento per tale indicazione. La documentazione clinica in questa area di impiego per gli analoghi idrossilati è molto limitata e mostra per il calcitriolo un rischio di ipercalcemia non trascurabile. (Trivedi DP et al. 2003, Bischoff-Ferrari HA et al. 2005, Bischoff-Ferrari HA et al. 2012, Avenell A et al. 2014).
L’approccio più fisiologico della supplementazione con vitamina D è quello giornaliero col quale sono stati realizzati i principali studi che ne documentano l’efficacia; tuttavia al fine di migliorare l’aderenza al trattamento il ricorso a dosi equivalenti settimanali o mensili è giustificato da un punto di vista farmacologico (Chel V et al. 2008). In fase iniziale di terapia, qualora si ritenga opportuno ricorrere alla somministrazione di dosi elevate (boli), si raccomanda che queste non superino le 100.000 UI, perché per dosi superiori si è osservato un aumento degli indici di riassorbimento osseo, ed anche un aumento paradosso delle fratture e delle cadute (Smith H et al 2007, Sanders KM et al 2010). Una volta verificato il raggiungimento di valori di normalità essi possono essere mantenuti con dosi inferiori, eventualmente anche in schemi di somministrazione intervallati con una pausa estiva. Il controllo sistematico dei livelli di 25OH-D non è raccomandato a meno che cambino le condizioni cliniche.
Si rappresenta infine l’importanza della segnalazione delle reazioni avverse che si verificano dopo la somministrazione dei medicinali, al fine di consentire un monitoraggio continuo del rapporto beneficio/rischio dei medicinali stessi. Agli operatori sanitari è richiesto di segnalare, in conformità con i requisiti nazionali, qualsiasi reazione avversa sospetta tramite il sistema nazionale di farmacovigilanza all’indirizzo https://www.aifa.gov.it/content/segnalazioni-reazioni-avverse.

Bibliografia

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Cos’è l’immunonutrizione?

A.D.

Immunonutrizione: come l’alimentazione può giovare alla nostra salute

Parlo spesso di sistema immunitario, di problematiche legate all’intestino, di alimenti capaci di trattare numerose condizioni morbose e capaci di risollevare le difese del nostro organismo: mettendo insieme questi tasselli, ne viene fuori una tematica molto importante e soprattutto molto richiesta in questi ultimi tempi, ovvero l’immunonutrizione.
Già l’immunonutrizione costantemente la pratico per trattare numerose malattie del sistema immunitario (e non solo) quali la tiroidite di Hashimoto, l’endometriosi, la fibromialgia, il morbo di Chron e la rettocolite ulcerosa, la sclerosi multipla e altre ancora, come patologie legate alla sfera femminile, alla sfera metabolica e tutte le patologie che hanno una correlazione con l’infiammazione generalizzata. Chi mi conosce da tempo sa quanto io mi soffermo proprio su quest’aspetto dell’infiammazione, una spiacevole base o punto di partenza da cui si diramano molteplici condizioni cliniche: agire a monte del problema andando a spegnere proprio quest’infiammazione è il passo fondamentale per avere la meglio sulle patologie del sistema immunitario che vengono “incitate” dall’infiammazione che risiede alla base.

L’intestino è il varco aperto per numerose malattie del sistema immunitario

Perché mi soffermo assai proprio sul fatto che la salute intestinale influenza molto la salute del nostro sistema immunitario? Chi ha letto il mio libro “La dieta anti-infiammatoria” già conosce il perché di questa correlazione: un intestino che è infiammato, che viene mal incentivato dalle pratiche alimentari, fa sì che alcune componenti tossiche o negative per il nostro organismo, anziché essere eliminate, vadano in circolo e creino danni, molto spesso di natura immunitaria. Parliamo di leakygutsyndhrome, di cui sicuramente avete già sentito parlare nei miei precedenti articoli e nel mio sito: per capire bene questa condizione, la cosa da fare è pensare che il nostro intestino è costituito da cellule messe l’una accanto all’altra e separate da giunzioni strette, definite tight junctions, che fanno da barriera regolando l’equilibrio fra l’ingresso di nutrienti vitali e quelli che non devono entrare nel flusso sanguigno. Quando queste tight junctions non svolgono correttamente il loro lavoro, le giunzioni si allargano e lasciano passare ciò che non dovrebbe nel sangue, quali molecole di cibo non digerite, funghi, batteri, virus, tossine, ecc.
Quando il nostro organismo riconosce queste particelle estranee nel circolo sanguigno, viene chiamato in causa il fegato per cercare di detossificare il sangue dalle tossine estranee, ma spesso non è in grado di compiere tutto questo lavoro da solo, per cui si attiva il sistema immunitario, causando l’insorgenza di infiammazione cronica, tramite la liberazione di anticorpi che combattono contro queste sostanze (come la caseina del latte, proteine dell’uovo e dei cereali che prima venivano tollerati dall’organismo) e di citochine infiammatorie.
L’infiammazione cronica è alla base della maggior parte delle malattie, infatti uno studio sulla permeabilità riportato sotto dice che la condizione di leakygut è legata ad ulcere gastriche, diarrea infettiva, sindrome dell’intestino irritabile, malattie infiammatorie intestinali (Crohn e rettocolite ulcerosa), celiachia, cancro esofageo e colon-rettale, allergie, infezioni respiratorie, artrite, malattie metaboliche legate all’obesità (steatosi epatica, diabete di tipo II, malattie cardiache), malattie autoimmuni, morbo di Parkinson, sindrome da stanchezza cronica, obesità.

Immunonutrizione e stile di vita

Quali sono le pratiche da adottare per trattare bene, innanzitutto, il nostro intestino, e quindi il sistema immunitario? Sono delle regole che riguardano sia l’alimentazione sia lo stile di vita, che riporto qui per farvi da Cicerone nel percorso specifico ed articolato che è quello dietetico e della modifica delle proprie abitudini quotidiane. Vediamo quali sono:
  • Controllo delle food-sensitivities
    Variare i costituenti della propria alimentazione e saper scegliere i cibi in modo tale da non far sviluppare un’infiammazione da cibo e fenomeni di cattiva tolleranza verso particolari gruppi alimentari
  • Eliminazione dei cibi pro-infiammatori
    Selezionare la propria scelta alimentare tenendo in considerazione quei particolari fattori che possono alterare la permeabilità intestinale o che possono promuovere la genesi di un processo infiammatorio
  • Abbassamento degli ormoni insulina e cortisolo:
    – Garantire la stabilità glicemica ed insulinemica con lo stile di vita e l’alimentazione, affinché l’organismo possa mantenere uno stato di benessere
    – No a frenesia e a stress, importanti induttori esogeni di aumento dei livelli di cortisolo, ormone pro-infiammatorio
  • Gestione della disfunzione mitocondriale
    Evitare la disfunzione mitocondriale assicurando il mantenimento di una funzione mitocondriale ottimale mediante uno stile di vita sano, mangiando in modo corretto con le regole sopra-citate, evitando lo stress e facendo attività fisica, dando importanza alla micronutrizione e soprattutto all’ossigenazione delle cellule, ripristinando e migliorando le normali funzioni a cui assolve l’importantissimo organulo cellulare
  • Crononutrizione ed assenza di fame tra i pasti
    Rispettare i ritmi cronobiologici dei pasti e delle proprie abitudini quotidiane, che vanno dalla veglia mattutina fino al riposo serale, per permettere il corretto flusso degli ormoni e il corretto funzionamento degli assi metabolici; mangiare inoltre in modo tale da assicurarsi la sazietà giusta tale da arrivare senza la sensazione di fame fino al pasto successivo
  • Modulazione del piano alimentare in funzione della spesa energetica
    Mangiare non seguendo uno schema preciso di grammature e calorie, ma ascoltando in modo fisiologico la propria fame naturale, assecondando ciò che il nostro organismo richiede in base alle necessità metaboliche
  • Attività fisica come anti-infiammatorio e riattivatore metabolico
    Ricordarsi che a braccetto con una corretta alimentazione viaggia anche l’attività fisica, elemento determinante per stare in salute, riattivare il metabolismo, promuovere pensieri positivi e disinfiammarsi, che deve essere graduale e con fasi di recupero
  • Riequilibrare il microbiota e la barriera intestinale
    Dedicare la propria attenzione a valorizzare tutti quei fattori benefici, che riguardano sia l’alimentazione che lo stile di vita, i quali vanno ad agire sul nostro intestino, ricordandoci che si tratta del nostro secondo cervello e della sede che viene maggiormente a contatto con le sostanze esterne: evitare fenomeni di alterata permeabilità intestinale, disbiosi della flora batterica, è un elemento essenziale per evitare genesi dell’infiammazione
  • Migliorare la qualità dl sonno
    Fornire poco riposo al nostro organismo determina disregolazione di importanti flussi ormonali, infiammazione, stress, che inducono non solo scombussolamento del ritmo delle proprie attività quotidiane, ma anche alterazioni a carico del sistema immunitario
  • Valutazione ed eliminazione degli interferenti endocrini dallo stile di vita
    Fornire i giusti input nella regolazione metabolica e ormonale, al fine di permettere al sistema immunitario di funzionare bene, agendo sul controllo degli interferenti endocrini nello stile di vita: la valutazione di tutti i fattori esterni, ambientali, inquinanti che nuocciono al sistema immunitario, e il loro successivo allontanamento dalla quotidianità del paziente è un elemento essenziale per assicurare il benessere dell’organismo
  • L’importanza dell’aspetto psicologico e motivazionale durante il trattamento dietetico
    Alla base del percorso dietetico e del cambiamento dello stile di vita, deve esserci motivazione, persistenza, positività, fiducia, affinché il percorso venga seguito con dedizione e costanza. Il dimagrimento ed il benessere, partono proprio dalla nostra testa

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