Gentile Direttore,
QS ha riportato la notizia di fonte Reuters che “Vaccinarsi dopo la malattia migliora l’immunità”, con riferimento a due studi condotti in Brasile e in Svezia. Il primo, attuato in Brasile su 22.566 persone guarite da COVID-19 confrontate con un numero triplo di soggetti di controllo, riporta che, a partire da 14 giorni dopo il completamento della serie prevista, tutti i vaccini in uso nel paese forniscono una protezione aggiuntiva significativa sia contro la reinfezione sintomatica (da un 40% di protezione del CoronaVac fino al 65% nel caso del vaccino Pfizer), sia - in misura maggiore - contro la malattia grave.
Il disegno utilizzato è caso-controllo test-negativo, che significa confrontare soggetti con sintomi compatibili con una COVID-19 che richiedono assistenza medica ed eseguono un test PCR-RT: quelli positivi al test vanno a far parte del gruppo dei casi di COVID-19, quelli negativi sono inseriti nel gruppo di controllo. Si tratta di un disegno efficiente e molto utilizzato, che presenta tuttavia due problemi.
Il primo è una tendenza alla sovrastima dell’efficacia pratica del trattamento in studio (nel caso specifico la vaccinazione). Il secondo è che per definizione, testando soggetti che richiedono assistenza medica, non rileva soggetti asintomatici.
Lo studio sostiene che “la domanda cruciale è capire se individui con una precedente infezione avrebbero benefici dalla vaccinazione”. La risposta degli autori è affermativa, ma non quantificano i benefici in termini assoluti, né come numero di persone che occorre vaccinare/Number Needed to Vaccine (NNV) per ottenere un beneficio. Questa sarebbe in realtà la vera domanda cruciale, sia dal punto di vista di scelte razionali di sanità pubblica, sia da quello di scelte razionali individuali, fatte salve componenti non necessariamente razionali, legate a valori e preferenze personali.
Lo studio svedese, invece, dà una risposta quantitativa alla domanda cruciale.
Si tratta di uno studio enorme, con una Coorte 1 di oltre 2 milioni di individui non vaccinati con immunità naturale, appaiati per età e sesso con individui non vaccinati privi di immunità naturale alla partenza. Una Coorte 2 con quasi 3 milioni di individui vaccinati con una dose dopo una infezione naturale (immunità ibrida-1 dose), e una Coorte 3 con quasi 570 mila individui vaccinati con due dosi dopo un’infezione naturale (immunità ibrida-2 dosi).
Dopo i primi 3 mesi, l’immunità naturale era associata con un minor rischio di infezione da SARS-CoV-2 del 95% e con un minor rischio di ricovero dell’87% per circa 20 mesi di follow-up, senza segni di declino.
Questi risultati estendono notevolmente il follow-up di una metanalisi di 15 studi osservazionali, che aveva mostrato con l’immunità naturale un minor rischio di reinfezione proprio dell’87% persistente fino a un anno, nel confronto con soggetti non immuni.
L’immunità ibrida ha offerto una protezione aggiuntiva che può sembrare importante in termini relativi, ma è minima in termini assoluti: gli autori calcolano che per prevenire un’ulteriore infezione nella coorte dei naturalmente immuni si dovrebbero vaccinare con due dosi 767 individui.
Risultati simili ha ottenuto uno studio israeliano in preprint, in cui una dose aggiuntiva di vaccino Pfizer in soggetti naturalmente immuni è risultato associato con un piccolo numero di infezioni in meno nell’arco di mesi. Gli autori hanno calcolato che circa 2000 individui dovrebbero ricevere tale dose aggiuntiva per prevenire un caso di infezione.
Gli autori svedesi, per altro, osservano che ci sono segnali di decadimento nel tempo della protezione ibrida, e la stessa cosa osserva un recente studio israeliano su 5,7 milioni di individui, anche questo in preprint.
Le conclusioni importanti dello studio svedese sono che “se pass sono usati per restrizioni sociali, si dovrebbe riconoscere come prova di immunità non solo la vaccinazione, ma anche una precedente infezione”.
Se questa conclusione, alla luce delle nuove conoscenze, appare logica dal punto di vista della sanità pubblica, e c’è da augurarsi che sia presto recepita anche dai Governi, ci si può chiedere quali informazioni potrebbe ricevere un singolo cittadino, per essere in condizioni di esprimere una scelta consapevole e dare il proprio consenso informato alla protezione ibrida dopo l’acquisizione di un’immunità naturale.
Molti potrebbero essere frustrati pensando alle basse probabilità individuali di evitare una reinfezione, risparmiata solo in 1 soggetto su 767 che ricevano due dosi.
Tali considerazioni generali potrebbero avere eccezioni evidence based in presenza di soggetti ad alto rischio di complicazioni gravi in caso di infezione. Gli autori svedesi considerano che nel loro (enorme) studio i casi di ricovero per COVID-19 in soggetti naturalmente immuni sono stati rari e, dato il basso numero di casi per attuare una analisi, ulteriori studi dovrebbero cercare di valutare la durata della protezione ibrida nei confronti di una COVID-19 grave.
In attesa di avere una risposta a tale interrogativo, una rassicurazione può venire dal fatto che la variante Omicron oggi dominante, con le sue sottovarianti, si associa a infezioni più miti, che nei non vaccinati risultano 5 volte meno letali rispetto alla variante Delta.
Dott. Alberto Donzelli
Specialista in Igiene e Medicina Preventiva, coord. Comitato scientifico della Fondazione Allineare Sanità e Salute